L’acqua del pozzo era fresca, dava alla lingua una sensazione frizzante. Dopo essersi dissetate al catino, cercando di immergere solo la bocca, le donne la versavano nel lemmo. Si lavavano dopo la giornata di lavoro. Tutte smanicate fino alle ascelle, le carni delle braccia rosate dal sole lasciavano in alto un biancore sotto i peli. Non usava ancora raderli, almeno la gente del popolo. Si lavavano or l’una or l’altra nello stesso recipiente e con la stessa scaglia di sapone da bucato. Il profumo di esso si mescolava con quello del loro sudore, lasciando poi una fragranza di fresco, di gioventù. Le guardavo ammirato e coinvolto. Credo che sia nato là, e a questo sia dovuto il mio afflato verso di esse ed il sentire il loro corpo. Mia madre in mezzo ad esse. Mi sorprendevo a baciarle, di tanto in tanto, le braccia in una attrazione che ora la psicanalisi mi dice essere un investimento sessuale. Gioivo della sua presenza e della morbida carne sotto le mie labbra. Se ne accorgeva con stupita complicità. Non ricordo, nessuno me lo ha raccontato, se mai da neonato le abbia morsicato i capezzoli. L’aggressività verso le donne non è una mia caratteristica, nemmeno negli attimi della perdita del controllo della passione. Perché nel momento della fusione si libera, anche se controllata, la violenza, il desiderio di annientamento, di fagocitare?
Mi scruto, cerco, mi interrogo sul mio rapporto con l’altra e non trovo risposte. Mi scruto ancora e mi interrogo, necessario mi è il comunicare. Bramoso della conoscenza.
Interrompo lo scrivere distratto da altro. Forse non reputo importanti le mie parole.
Riprendo.
Cantavano le donne, alcune nascoste tra le foglie ed i rami di fico. Arrampicato in cima al mandorlo ascoltavo il loro canto tutt’uno con quello delle allodole che si libravano, per lunghi attimi quasi immobili, in alto nel limpido celeste del cielo. Col fischio imitavo il loro verso. Insieme alle piccole foglie, verdi sfumate di giallo, la brezza muoveva i miei pensieri. Qualcuno di essi volava a raggiungere le allodole e mi lasciava come spoglio.
Il sole del mattino annegava giù il paese, che stava indolente, come adagiato sulla riva del mare, nel suo brulicar silenzioso. Passavano sul ponte sporadiche macchine, scivolando lungo la strada, come piccole formiche ritardatarie. Interrompeva lo scorrere del tempo il rintocco del campanile per la funzione delle 9. Refrigerio, all’insorgente calura, trovavano le poche fedeli, tra le navate e le statue dei santi. Mescolavano il mormorio sommesso delle loro preghiere con discorsi non sempre di chiesa. Aspettavano il suono della campanella che annunciava il prete all’altare. Ammutolivano in attesa.
Ora il caldo era insopportabile. Tornavano le donne, sudate, con le braccia segnate dal latte dei fichi, a sedersi al fresco, a consumare il loro appetito con pane ed ulive nere condite con olio ed origano, in una grande insalatiera, insieme a cetrioli e pomidoro. Qualcuna si addolciva la bocca con un fico, dopo aver assaporato e spalmato con la lingua sul palato il suo miele. Li tagliavano in due mezzi i fichi per metterli ad essiccare al sole.
Assordante il frinir delle cicale mi faceva abbassare le palpebre e penzolar la testa. Cascavo dal sonno nell’afa secca del meriggio. Una patina bianca trasparente di calore e di nuvola velava il cielo. A basso un cane abbaiava.
Sonnecchiavano ora, sedute su piccole sedie, le spalle appoggiate al muro. Il respiro cadenzato sollevava leggermente il petto, aumentando l’armonia dei loro corpi. Niente si muoveva, le foglie del mandorlo erano ferme, come dipinte, anche le cicale silenziose. Passavano così le ore più calde nella più completa immobilità, una stasi della vita.
Lentamente ripigliava il frinire, destando tutti ad un nuovo movimento. I panieri al braccio, scendevano nella campagna a mimetizzarsi di nuovo tra i fichi ed a raccoglierne il frutto, fino all’imbrunire, quando, riempita l’acqua dal pozzo, ripetevano il rituale del lavacro.
Ad Angiolina ed al ricordo che lei ha della sua mamma ed io della mia.
31 Gennaio 2021
Ciro Gallo.