A vederlo nel ricordo mi fa sempre pensare a Narciso. E di narcisi eran circondate le sue sponde.
Era apparso così, come sbucato dal nulla. Una chiazza di luce in quel fresco mattino, una apertura tra gli alberi. Uno di quei luoghi in cui Turien diceva di aver incontrato la sua fortuna. L’aveva vista per un attimo ed era subito scomparsa, il tempo di controllare lo scarto della sua mula. Le gote rosee, le trecce bionde, gli occhi cilestri, così aveva immaginato la fugace comparsa. Di fatto da quel momento tutto per lui era migliorato, fino all’agiatezza sperata.
L’erba, come annaffiata di fresco, brillava alla luce del sole, stellata di gocce di rugiada, come piccole perle. Accarezzava tutto il prato fino a lambire le acque. Quasi immote le piccole onde, mosse da una brezza leggera che spandeva nell’aria il profumo insieme al pigolio di qualche uccello nascosto tra i rami dei faggi, che facevan recinto e corona. Silenzioso di altro il piccolo lago. Una pace alla mia ansia infantile. Ristoro alla modesta fatica, ad asciugar il sudore per il lungo cammino. Stringevo con la mia mano quella di mio padre. Morbida e protettiva era la sua mano. Camminavo, fuori dal viottolo, tra l’erba. Bagnava di freschezza con la sua acqua le mie gambe ed i miei piedi nudi. Mi ero come sempre tolto le scarpe. Sempre ho amato comminare sull’erba. Mi accostavo rispettoso alle sue rive, timoroso di disturbare la sua quiete. Ho desiderato, come ancora mi capita, di immergermi nelle sue acque fresche, dimentico di qualsiasi pericolo. L’acqua per me è un lavacro ( di pace), un oblio, un liberarsi tranquillo, un volo di uccelli nel sereno del cielo.
Il viottolo si inoltrava ora nel bosco. L’ombra copriva come un manto il nostro camminare. Le foglie si muovevano leggere assecondando la brezza ed i raggi del sole che riuscivano a penetrare nel fitto degli alberi. Lontano ogni tanto si scorgeva il Biviere, con le sue acque azzurre, che rimandavano i raggi del sole. Solitaria, tranquilla svettava l’antenna di Monte Soro a vedetta di ognuno. Avevamo appena intravisto alcune casupole Di Cesarò, sparse in un tempo rarefatto. Passata Femmina morta è come se il nostro viaggio si fosse interrotto. Di colpo il bosco, i suoi cavalli allo stato brado e l’eco dei campanacci delle vacche si erano ecclissati e noi, volati oltre S. Fratello, usciti da un sogno, arrivati a casa.
Lavorava mio padre a Cutò. Misurava i gradoni che gli operai preparavano per il rimboschimento. Mi aveva portato là una estate, col camion della ditta. Questa volta l’odor della nafta non mi aveva disturbato, come in quell’altro viaggio, quando eravamo andati a Caltanissetta. Non ricordo bene il tragitto. Mi ero trovato in quella casa in piena campagna. Bambino tra tanti adulti. Una edificio lungo, su due piani, con tante finestre, nessun balcone. Era stata una di quelle case di possesso dei principi Cutò. Alloggio per animali ed intere famiglie di contadini alle loro dipendenze. Ora piena di lavoratori, braccianti agricoli. Stavano tra Bagheria e Palermo i principi, come in città risiedeva l’appaltatore padrone di questi ultimi. Non c’era allegria tra loro. Tristi erano i tempi. O forse ora è solo una mia sensazione.
La pasta stortello, fumante, era stata versata in un grosso piatto di maiolica. Turi Fallo, uno dei capisquadra, alto e magro, con grossi baffi neri ed il volto bruciato dalle sigarette e dal sole, aveva preparato il sugo con pomidoro freschi e carne in scatola. Mangiavano insieme gli uomini, in quattro, ognuno dal proprio lato del piatto. Peppino, il capo cantiere, un omone bonario, accortosi che per la mia timidezza, quasi paralizzante, non ordivo alzar la forchetta, versò una razione in una scodella e me la porse dicendo : “non facciamo morire di fame il ragazzino”.
Forte, corposo e scuro era il vino che bevevano. Mio padre lasciava il suo bicchiere per ultimo, per berlo poi, finito di mangiare, prima di accendersi l’ennesima sua sigaretta.
La stanza si era riempita di fumo. Tutti fumavano. Aperta timorosamente la finestra, per far cambiar aria e buttar fuori il calore, mi affacciai, investito da miliardi di stelle. È come se avessi acceso il cielo. Immobilizzato, stetti così trattenendo il respiro.
Spedito camminava mio padre, tutto il giorno, lungo i gradoni. Li misurava con la sua rollina, una scatola rotonda, foderata di cuoio, ormai liso per l’uso. Da una fessura di essa usciva una fettuccia di circa 20 metri di lunghezza. Egli la svolgeva camminando mentre Fallo manteneva fissato a terra un capo di essa. Riportava su un quaderno a quadretti, in colonna, cifre su cifre, che poi la sera, prima di cena, calcolava.
Alcuni giorni lo ho seguito nelle sue misurazioni. Tornavo la sera veramente stanco, assolato ed assetato. Non sempre l’acquaiolo riusciva a raggiungerci, così veloce andava. Persino Turi faceva fatica a seguirlo. Di tanto in tanto, sudato e quasi affannato, si fermava e gridava: “Amerigo fermati, per carità, non ce la faccio più, mi fai mancare il respiro. E fumiamoci una sigaretta!” A questo richiamo magico si fermava, tirava fuori il suo pacchetto di Alfa, sfregava un fiammifero di legno su un sasso, accendeva una sigaretta, ne rubava una boccata e la porgeva a Fallo. Poi accesane una per sé si sedevano e concentrati, muti, si beavano di quell’elisir velenoso che invadeva i loro polmoni.
Accortosi della fatica che facevo mio padre decise di non portarmi più dietro sul lavoro. Restavo completamente solo in quelle lunghe giornate. Non c’era nessuno. Tutti erano andati a lavorare. Non erano tempi quelli per potersi permettere un riposo in più, per la fatica. Eravamo rimasti io, il chiocciar delle galline nella campagna e quella spettrale casa, muta di storie attuali in quei mattini, in attesa di ricacciar via i suoi fantasmi la sera, quando sarebbero tornati gli operai. Avrebbero coperto con le loro voci i ricordi che la abitavano.
Giorni erano passati. Sempre uguali per me, sempre gli stessi, in attesa del ritorno della gente, prima che, svegliati entrambi col buio, ci incamminassimo insieme a piedi per il nostro viaggio di ritorno.
10 Agosto 2020
Ciro Gallo