Era sempre lì. Ancora negli anni del liceo all’angolo del Palazzo Rizzo. Niente era cambiato solo che adesso aveva una carrozzina con le ruote.
Il sole del mattino faceva brillare l’asfalto, la strada era quasi deserta, si poteva camminare in mezzo, nemmeno una automobile. Risuonava il rumore del macina caffè, il profumo delle paste secche del bar Schepis invadeva l’aria. L’emporio dei fratelli Pietro aveva alzato la saracinesca.
A guardarlo da lontano sembrava un busto di quelli eretti in commemorazione in attesa di essere posto su un piedistallo. Non aveva le gambe. Tranciate secche. Sotto i monconi erano fissati dei pezzi di copertone per permettergli di muoversi, o forse meglio per fissarlo al pavimento. Anche allora aveva i capelli grigi, che dovevano essere stati biondi, un bel volto con gli occhi chiari.
Non capivamo come potesse arrivare a quell’angolo, ogni mattina, da contrada Orecchiazzi, nella campagna fuori dal paese. Ci chiedevamo come fosse successo: in guerra, una bomba inesplosa scoppiatagli addosso mentre lavorava nei campi? Non aveva altre cicatrici. Tagliate di netto. Pensavamo che le gambe gliele avesse portate via un treno.
Per disperazione, solitudine e necessità di accudimento l’aveva sposata. La vedevamo di tanto in tanto accanto a lui allo stesso angolo. Non chiedevano l’elemosina, stavano a guardare silenziosi. Lui lo sguardo fisso, lei quello di una ebete. Di lei si era dovuto accontentare. Dalla faccia di lei traspariva una quasi totale assenza di capacità di comprensione.
Aveva avuto tanti figli, forse qualcuno non suo. Peppa sì, come Saro. L’altra che ho conosciuto non si può dire. Identica alla madre in tutto, fisico e mente. Tutti avevano ereditato i caratteri genetici della madre. Oggi si direbbe per una mutazione dominante di qualche gene che ne aveva compromesso lo sviluppo intellettivo. Tante di queste coppie ce ne erano allora. Gente con le stesse caratteristiche si univa o veniva fatta unire dai parenti per dare una compagna. Omogenee. La loro no, era una coppia spuria. Taciturno non si lamentava mai. Equiparava la sua menomazione fisica a quella di lei.
Ora all’angolo di sotto della strada, dove c’era appena discosta la farmacia, c’è l’edicola-profumeria dei fratelli Romeo. Allora, forse una porta più in basso, c’era una bottega. Una specie di alimentari e mescita .
Mia zia aveva la dentatura della sua famiglia, uguale ce l’aveva mio padre. Lievemente sporgente l’arcata superiore. Lungi da imbruttirli li rendeva più affascinanti. Teresa aveva le labbra sempre lievemente dischiuse in un sorriso, un fare svagato del volto, un parlare interrogante, i capelli neri ondulati, un fisico snello. Mia madre, i capelli legati dietro, una fronte ampia, libera, le labbra con un pizzico di rossetto, lo sguardo vivo, profondo, anche se mesto. Erano giovani. Io e Luigi, mio cugino, stavamo vicini, attaccati alle nostre mamme. Non ricordo perché quella mattina fossimo andati a S. Agata.
La porta era aperta. Scesi un gradino ci trovammo in una stanza semi buia ma fresca. Un refrigerio in quel mattino d’estate, ormai divenuto caldo. L’odore della mafalda imbottita di mortadella aveva più gusto del suo sapore. Mangiavamo tutti e quattro. Le madri avevano preso anche un bicchiere di vino.
Andavano d’accordo le due cognate. La zia talvolta era scostante. Mia madre ora aveva imparato a conoscerla e non si mortificava come prima. Con Luigi eravamo cresciuti insieme, egli era più giovane di me di un anno. A volte diventava strano, irrazionale, aveva comportamenti inspiegabili. Ancora mi porto il segno di una sua vergata a spezzarmi in due il sopracciglio. Mai in mezzo mi è ricresciuto.
Mi chiedo quanto le caratteristiche genetiche e le loro mutazioni, quanto quelle costruzionali: l’ambiente sociale, i rapporti familiari, determinino le nostre intelligenze, la nostra emotività, i nostri comportamenti, la nostra stabilità di carattere e alla fine il nostro destino.
Spesso a chi la natura ha riservato un normale sviluppo intellettivo, l’ambiente toglie l’equilibrio di vita. Questo incresciosamente è venuto a mancare a mio cugino.
Passo di tanto in tanto in macchina e girando la curva guardo d’istinto verso l’alto, come a volerlo rivedere. Tutto è cambiato. Il traffico intenso, la farmacia spostata, la bottega scomparsa, vetrine alla moda e anonime, Pietro ora è diventato D’amico , il vero cognome. Chissà da quanto è morto. Luigi è scomparso ancora giovane ed io ho i capelli bianchi e lo sguardo a ritroso.
4 Agosto 2020
Ciro Gallo