Me lo sono portato sempre dietro questo senso di colpa.
L’avevo chiamata, dopo tempo, un giorno che ero tornato al paese. La lapide che c’è alla stazione ricordava tutti i ferrovieri morti sul lavoro.
Quel giorno ero andato a M a visitar mio padre, operato di cataratta. Non avevo avuto una bella accoglienza. Triste ero uscito.
L ci spiava quando noi due eravamo insieme. La curiosità di me forse l’aveva spinta, tempo dopo, a scegliermi.
Si era lamentata R, rimproverandomi che mi facessi sentire a distanza di tanti anni, dopo quella notte. Mi ero scusato dicendo che il necrologio sul muro della ferrovia me l’aveva fatta sovvenire. Era una mezza verità. In effetti il senso di colpa ed il ricordo nostalgico erano stati la causa.
Quell’estate mio cugino aveva passato la maturità. Erano venuti gli zii con Chiara a trovarci. Ora erano grandi. Da piccoli diverse estati erano venuti da Bologna al mare da noi. La Ford Cortina che avevano era nuova, di un colore bianco-grigio, comoda. Ciro aveva già la patente. Con mille raccomandazioni suo padre gliela aveva data quella sera.
Cefalù di notte è più bella. Le strade silenziose anche se piene di turisti. Il fresco alla calura del giorno. Una chiazza di luce la cattedrale. Il “trappitu” era un locale da ballo. Una meta dal sapore di desiderio giovanile.
Ora quella strada a Torre del Lauro è poco frequentata, sporadiche macchine vi passano, solo per andare al mare. Allora era l’unica via di transito per Palermo. Stretta e tutte curve, segnata da due passaggi a livello. Il secondo su una curva. La ferrovia quasi sulla strada. Nel buio come una prosecuzione di essa. La macchina proseguì dritta, per metri lungo le rotaie. Presi dal panico, scesi tutti e quattro, invocavamo aiuto. Incuranti le macchine passavano. Improvviso scandito il suono metallico. Si chiudeva il passaggio a livello. Disperato prevedevo lo sferragliar della macchina trascinata dalla locomotiva, ed il nostro disastro. D’istinto gridai :” torna a marcia indietro”. Un attimo dopo passò il treno. Terrorizzati lo guardavamo, lugubre, dallo spazio tra la strada e le sbarre. Proseguimmo. Calde le lacrime di R ora cadevano dai suoi occhi tranquilli sulle mie mani non più tremanti. Altre volte avrebbero le mie mani accarezzato furtive i suoi seni addormentati, complici.
Veniva R per le vacanze in paese. Mi affascinavano la sua faccia aperta, le sue labbra di rosa ed i suoi fianchi materni. Nella mia timidezza non osavo. Ella si accorgeva piacevolmente. Altre esperienze avrebbe avuto. Nessuno a quell’età aspetta gli indecisi.
Succede che tu sogni o che li costruisci i sogni al tuo risveglio. Strane, spezzettate, multiformi immagini di te si susseguono, puoi essere uno e contemporaneamente un altro. Un rimescolar, un vortice di elementi che si fondono in figure caotiche, che tu cerchi col ricordo di dirimere, di renderle chiare. È la tua interpretazione poi che gli da la forma ed il contenuto. Sempre costruito mai corrispondente al “sogno”. Se questo mai esiste. O sono le reazioni biochimiche, che senz’altro avvengono, che ti richiamano le sensazioni precedenti a cui esse sono dovute. Era stata una di queste reazioni/sensazioni che io forse avevo suscitato in R. Le era rimasta a lungo in qualche recondita parte del suo cervello, da dove il caso l’aveva richiamata. Aveva sognato di me R e dolce le era sembrato. Aveva desiderato un ugual reale.
Mortificato, perplesso, scendevo lungo la via Tommaso Cannizzaro, verso la stazione. I lampioni della notte allungavano la mia e l’ombra di un gatto che attraversava la strada. Il rumore dei miei passi rimbombava. Lisce e lucenti le mattonelle nella semioscurità della strada. Non anima viva. Seduto triste, preoccupato tornavo col treno delle 3 e 40, l’odore nauseante dei sedili di legno.
Non era stata così la sera. Uscito dal policlinico ero andato a salutare N e la madre. Sempre mi sentivo a disagio, quasi in soggezione davanti alla signora E. Fumava, mi piaceva sentire l’odore del fumo delle sue Giubek. Rilassato ora scendevo la strada, lì vicino era l’abitazione di Lc, sapevo che là avrei trovato R. Studiavano insieme medicina. Al far della sera uscimmo io e R. Camminavamo silenziosi, ogni tanto guardandoci. Contenevano gli sguardi i ricordi e le sensazioni che ognuno di noi aveva avuto dell’altro. Dolcezza ci invase, timide le mani si toccavano e si intrecciavano, tutto ci scorreva davanti. Incuranti, come soli, proseguivamo, mi portava R a vedere la città illuminata dall’alto. L’imbrunire ci rendeva più ombre, sfumava i nostri corpi. In alto una piccola piazza, lontano il mare e le luci, io guardavo ammirato, R faceva parte del tutto. Ho sfiorato le sue labbra in un dolce tepore.
La casa, in un palazzo tra gli alberi, mi era sembrata spoglia e solitaria, fredda la stanza. Ma R la riempiva del colore del nostro desiderio. Un leggero tremore mi invadeva, prezzo per la mia scarsa esperienza. Accogliente era stata R, delicata. Si stupiva dei miei gesti grossolani, frutto dei discorsi volgari ascoltati. Mi stupivo anche io di essi. Qualcuno aveva detto che quello era il modo. Tempo ho necessitato per apprendere il desiderio dell’altra.
Nudi sul letto, un atlante di anatomia davanti, cercavamo ora una immagine equivalente a quello che mi era successo. Ci guardavamo increduli l’un l’altra. Non era successo come aveva sognato ed io desiderato. Restavamo con sulle ginocchia il libro, ridicole figure di studenti di medicina. Avevamo a nostre spese pagato quella lezione di anatomia.
Per giorni sono andato avanti ad impacchi con acido borico. Preso dal mio problema, mi sono scordato persino di telefonare a R. Il tempo poi ha fatto il resto.
Per sempre ho pensato ed ancora penso, con sentimento di colpa, alla frustrazione di R e al suo senso di offesa, accentuato dalla gratitudine che le porto per aver cercato di rendere reale un sogno di desiderio di me.
Le immagini degli uomini valgono più del reale.
Milano 25 luglio 2020
Ciro Gallo