Annamaria

La via Mazzini scendeva quasi silenziosa verso la stazione. Lo stradone la separava dalla scalinata e dalla fontana. Il municipio sovrastava la piazza e la strada sottostante. Con la sua struttura fascista sembrava altissimo a guardarlo da lì. All’angolo in alto a sinistra era la panneria del ragioniere D’angelo,  accanto il salone di Vincenzino. A destra la casa dell’arciprete con la sua terrazza balconata. A pian terreno una specie di emporio. Di tutto vendeva Mayo, dalle zucchine alle scarpe. Lá era stata la bottega di don Ciccio. Davanti all’ingresso, la vecchia saracinesca  alzata costantemente a tre quarti, stava seduto  sulla sua sedia di paglia. Si appisolava anche di mattina nei giorni caldi di primavera, appesantito dal suo grasso. Lo svegliava la corsa della corriera che arrivava da S. Fratello e che si fermava davanti al suo marciapiede. Quasi nessuno dei paesani scendeva, andavano tutti a Sant’Agata al catasto o all’ufficio registro, sempre per beghe e contributi da pagare.

Dritta ed in pendenza proseguiva la via. La casa del dottore era rialzata dal livello della strada. Alle finestre color celeste del suo studio sovente si affacciavano le sue due bellissime infermiere. Affascinanti, una bionda, l’altra bruna. Erano venute da Bologna. Si dicevano sorelle. Di fronte appena discosta, all’angolo, all’incrocio con via Dante, la casa di Antonio e Luigi, vuota per lunghi periodi. La abitavano quando venivano da Messina. Li conduceva per mano la professoressa, lenta ed impacciata nei movimenti. Vestiva sempre occhiali scuri per nascondere il suo prominente esoftalmo.

Si scorgeva da quel punto, tra le sterpaglie verdi,  il tetto della stazione, come uno scoglio affiorante dal mare, poche decine di metri più in basso,  con i fili della ferrovia pieni, all’imbrunire,  di  passeri,  storni e rondini.  Gli facevano compagnia più sopra l’abitazione  di don Gegè,  due piani di vecchia muratura, da un lato,  e quella moderna e colorata di Sanfilippo dall’altro. Solitaria,  bassa stava di fronte a quest’ultima la casa di Ciccia. Rimasta senza facciata, le pietre ed il cemento che le teneva insieme le davano l’aspetto di una carta geografica.

Annamaria abitava al pian terreno della casa gialla. Bassina, pulita, simpatica era la terza di quattro fratelli. Curava lei il più piccolo. Se lo spupazzava a tutte le ore, riempiendolo di complimenti e di baci.

La finestra aperta sulla strada, Tano studiava, passeggiando per la stanza. Quel giorno continuava  a leggere un unico articolo del codice di procedura  penale. Lo declamava,  lo sillabava, lo ripeteva a voce bassa. Niente, non riusciva a capire, né il costrutto, né il senso. A fatica frenava l’impulso di sbattere il libro al muro. Intanto Annamaria di rimpetto, dall’altro lato della strada, davanti alla sua porta, giocava col fratellino. Lo dondolava, lo sbaciucchiava e a voce alta continuava a dirgli: ” ch’  beddu ch’ si ( che bello che sei), ch’ beddu ch’si”per delle mezze ore. Tano infastidito fremeva,  non poteva chiudere la finestra per via del caldo,  si spazientiva, e quella imperterrita : “ch, beddu ch’ si, che beddu ch’si me frati”( che bello che sei fratellino).

Persa ogni speranza che la smettesse, esasperato dalla procedura penale e dalla cantilena di quell’altra, all’ultimo “ch’ beddu ch’ si”, si affacciò alla finestra e la chiamò dicendo: “Annamaria, ma non t’accorgi ch’ to frati é bruttu!” Poi chiuse la finestra e smise di studiare.

A Tano, vivo é sempre il suo ricordo

Ad Annamaria che amava Lucio Battisti, chissà se lo ama ancora.

Ciro Gallo