Anna

Le piaceva giocare, quasi una voluta delicata provocatoria seduzione. Lei aveva sette anni più di me. Era stata sempre protettiva. La sua pelle candida aveva qualcosa di rilassante. Io avvertivo soltanto una confusa attrazione  che non concretizzavo ma che a lei era rivolta, alla sua figura quasi incorporea ma reale. Un desiderio sessuale nostalgico. Mi chiedeva, si informava delle mie esperienze ed io, nel raggiro della sua provocazione desiderante, parlavo, a volte inventavo, senza dire bugie, perché ciò che dicevo era frutto delle speranze affettive della mia adolescenza. E intanto sentivo il calore della sua presenza, del suo corpo.

Nonostante i suoi 25 anni anch’ella era rimasta adolescente. Chissà se pensava di me allo stesso modo in cui io pensavo di lei. Era come una comunicazione corporea, un amore fisico, reale solo nelle nostre menti.

La vedevo d’estate, quando tornava da un paesino del nord, alla fine dell’anno scolastico ed io da Milano. Lei insegnava, io studente universitario. Mai i nostri rapporti si sono interrotti. Mai  mutati. Ancora adolescenti. Lei diventava sempre più materna ed io sempre più triste e timido. Avvertivo ora il desiderio come necessità ma era ormai una indistinta aspirazione all’affetto.

Quell’ottobre  qualcosa in me  si era chiuso. Tutto era diventato scuro, lentamente, nella  nausea di me  e del mio comportamento. Avevo interrotto ogni rapporto, strappato tutti i numeri di telefono, quelli carpiti a ragazze gentili alle fermate dei tram e quelli volontariamente datemi da altre. Fabrizia era stata cancellata dalla mente, Flavia  un senso di colpa.

ll libro di biologia a terra al capo del letto ed io coricato. Al buio passavo i giorni. Non avevo avversione, non mi sentivo senza valore. Forse era a causa della costante presenza di esso che mi sentivo così. Avevo come perso l’orientamento. Non mi raccapezzavo. Stavo inane ed insonne.

Qualcuno aveva prenotato per me una settimana a Bormio. Mi aveva spinto su un autobus. Inebetito non opposi resistenza, come un automa partii. Non ricordo  come e dove arrivai, ho solo l’impressione della grossa valigia rigida, quasi vuota, che mi trascinavo dietro. Qualche vestito, nessun equipaggiamento da sci, solo un paio di clarks pesanti.

Passavo i giorni in camera. Seduto al tavolo davanti alla finestra, guardavo le montagne, cercavo di studiare. La sera era triste. A cena, solo al mio tavolo, posto all’angolo, guardavo la gente seduta che mangiava  e chiacchierava, apparentemente serena. Studenti si susseguivano nelle loro settimane bianche, accentuando la mia tristezza e la solitudine. Camminavo nella neve, bagnandomi, come per perdermi, ma senza volerlo.

Decisi una mattina di andarla a trovare, insegnava lì vicino. Non rammento se abbia preso un pullman o il treno. Abitava  in una casetta  linda, con tre gradini all’ingresso principale, una piccola copertura di vetro sulla porta  a proteggere dalla pioggia e dalla neve. Viveva in una stanza di quella casa. Non mi sovviene la padrona  ma la figlia. Una ragazza sui diciassette anni, non molto alta, con i capelli castano chiaro a caschetto, occhi di un celeste indefinibile, la pelle bianca e rosea. Timida ed insignificante. Restai a mangiare.

Ormai adulta, non usò più la sua seduzione  ma non smise di essere materna e, come a protezione  mia e della ragazza, cercò, per tutto il tempo, di sposare le nostre due timidezze. Senza successo. La mia tristezza mi rendeva impenetrabile anche  alla minima affezione. Credo di aver frustrato le speranze della ragazza.

Anni sono passati. La incontro di tanto in tanto. Ora sono io che reggo il gioco, ne approfitto  di una complicità sopita. Col tempo Anna è cambiata, il suo corpo ha subito  le  mutazioni degli anni, appare assente, intristita nel fisico, di un bianco pallore nel volto. Si legge la malinconica sorpresa  di un rapporto risultato sperequato, senza affetto. Sente la rinuncia di sé che ha fatto per un matrimonio di prestigio, da mostrare alle sue compagne rimaste in provincia. Per senso di rivalsa. Ci teneva tanto. Ormai é come svuotata, nella stasi della sua delusione, si trascura nelle  inevitabili malattie dell’età. Senza alcun interesse alla vita, aspetta.

Ciro Gallo