IN RICORDO DI  DON AMERIGO, PORTIERE COL VEZZO DEL DRIBBLING 

 

Vivevamo in due stanze  a pianterreno,  una piccola cucina con una finestra ed un camerino alto e stretto, semibuio con un lucernaio che ne accentuava l’oscurità.

E fu li che bambino di tre anni cominciai a sentir l’odore di grasso del cuoio del pallone, con la camera d’aria tenuta a posto da stringhe, del sudore delle maglie ed udire il rimbombo dei tacchetti sul mattonato. Ora qualcuno dice che in quello sgabuzzino non c’erano mai state né maglie, né scarpe, né  palloni. E’ possibile che io abbia allucinato il ricordo.

Amerigo era conosciuto da tutti per il suo coraggio, le sue acrobazie in porta e per il sigarino che fumava. Per questo lo chiamavano don, fin  dall’adolescenza. Io me lo ricordo mio padre in braghe corte giocare sul sagrato della chiesa, nelle domeniche pomeriggio, quando il campo sportivo era scomparso, forse ingoiato da una mareggiata. Il suo sinistro attorcigliante in dribbling impossibili cercar di far goal in porte di legno con i supporti frenati da grossi massi. Arrampicati sulle scale, quel pavimento di sessanta metri per venti ci sembrava il Maracanà . Quelle maglie viola gigliate e rosa-nero vestite da  ragazzi e giovani uomini li rendevano  idoli di un campionato a sei squadre.

Prima ancora ricordo i colori primaverili del prato, le mimose selvatiche e le agavi della scarpata della stazione stipata di uomini. Qualche ragazza in manichette corte dava libertà ad un colore latteo ed ad un profumo materno e sensuale. Ai bordi del campo, in una delle prime carrozzelle a motore, il gelataio gridava: “al vero gelatoo! ” Dieci lire costava quel sapore fragrante di pistacchio tra due  cialde che si attaccavano al palato. Rivedo figure informi in movimento ed una palla e più in là un mare celeste e piccole margherite gialle fin quasi alla battigia

Bettina ed Amerigo erano fuggiti per amore ed avevano rischiato di essere arrestati per adulterio. Vivevano in ristrettezze perché abbandonati da tutti. Amerigo continuava le sue uscite acrobatiche ed i suoi accartocciamenti sui piedi degli avversari.  Bettina  impallidiva. Temeva qualche disgrazia e di perdere il proprio uomo vanificando il suo sacrificio d’amore.

Amerigo cominciò così ad uscire a vuoto a non trattener la palla e a sentir le orecchie piene di fischi.

Finché un giorno, Bettina sugli spalti, prese sei goals , uno più stupido dell’altro, perché non guardava il campo, ma in alto verso di lei !

Al primo mattino d’aprile, all’istituto, la rugiada ti entrava nelle ossa, dovevi raccoglierti nelle spalle e, camminando sul terreno di gioco, aspettare che il sole filtrasse attraverso gli ulivi e gli aranci e ti riscaldasse il viso con l’odore di zagara. Piccole onde di nebbia si alzavano dal campo ed andavano a spegnersi, evaporando, nel cielo .

Alle otto, prima della messa, il prefetto calciava alto il pallone, in mezzo al campo, gridando: “Viva don Bosco !” Studenti in furia , sbucati da ogni parte si mettevano all’inseguimento di quella palla liscia, di gomma dura , pesante, difficilmente controllabile. Ci si metteva un quarto d’ora per raccapezzarsi, per fare le squadre. Venti contro venti, trenta contro trenta. Era un parapiglia di calci sugli stinchi, di pallonate in faccia, di tackle contro gli stessi compagni di squadra. Un intenso corpo a corpo di dieci -quindici  minuti, finché il campanello del prefetto ci immobilizzava, chiamandoci in chiesa per la messa. In fila, sottovoce, continuavamo la sfida a parole e parolacce, interrotte dalla mano pesante di don Machì che si abbatteva tra capo e collo dove capitava, facendo rimbombare il corridoio. Era il prefetto un uomo sulla cinquantina, grasso ma con una faccia limpida, i capelli ondulati grigi, una tonaca sempre pulita ma con qualche piccola macchia di tabacco da fiuto, sfuggita dalla tabacchiera d’argento. In chiesa si pregava con la fretta di uscire. Già dall’introibo volevamo accorciare la durata della messa. Allo scandire cantilenante dell’ufficiante.” In   tro   ibo   ad   alt  a  re  dei”, rispondevamo d’un fiato addeumquilaetificatjuventutemmeam. Di tanto in tanto questa nostra premura si trasformava in una sonora ed unisona risata. Succedeva che gli otto chierichetti che servivano messa sbagliassero il complicato cerimoniale scambiando le posizioni o, incespicando sulla lunga tonaca, sparpagliassero sul pavimento l’incenso acceso o peggio le ampolline con l’acqua ed il vino da consacrare. Era un corri corri  verso la sacrestia, uno sbatter di porte alla ricerca di altro vino o altro incenso.

A mano a mano che la messa volgeva al termine la nostra frenesia cresceva. Ci preparavamo al quarto d’ora di battaglia, prima dell’inizio delle lezioni. Ingoiavamo l’ite missa est con un vorace amen, pronti a fuggire in campo.

Odiavamo don Giarratano,  scrutavamo le sue mani ed i suoi occhi perché tutte le volte che socchiudeva gli uni e liberava dalle maniche le altre voleva dire che si sarebbe apprestato all’organo e ci avrebbe fatto cantare. Non potevamo neanche stonare perché ci avrebbe fatto provare e riprovare, mangiandosi così i nostri quindici minuti di partita.

Liberi, come animali selvatici, riprendevamo le corse ed i calcioni. Don Gorgone e Benì avevano un conto aperto. Al prete, quando in possesso della palla, era difficile toglierla, sembrava che la nascondesse sotto la tonaca. Benì,  per rifarsi delle sberle prese durante le ore di italiano, sferrava calci. Purtroppo sempre a vuoto, perché l’insegnante era talmente bravo che schivava anche quelli. Non gli riusciva di vendicarsi. Benì  era però un tipo cocciuto e non demordeva. Fino a che un giorno, ai tempi del liceo, incontrò il suo “nemico” , in viale San Martino , a Messina , in borghese con sottobraccio una giovane bionda e lo salutò con un ghigno sarcastico e vendicativo:” Buon giorno don Gorgone !”

A pensarci Giulia non era molto bella, ma i suoi capelli biondi e lisci, il suo viso bianco con una incipiente acne da adolescente, i suoi occhi bruni ed il suo sguardo dimesso mi rasserenavano. Mi riempiva di gioia vederla. Mi estasiavo a guardarla e sobbalzavo quando la perdevo in mezzo alle sue compagne sulla balconata, in fila per la messa.

Ogni anno durante la quaresima qualcuno di noi, dell’istituto maschile, era chiamato a servir messa presso le suore di Maria Ausiliatrice. Giulia era una studentessa interna, l ‘avevo vista per la prima volta quell’anno, per la festa di san Giovanni Bosco e rivista di sfuggita, qualche tempo dopo, con la sua superiora, nell’ufficio del signor direttore. Avevo aspettato con ansia quel periodo pasquale perché sapevo che don Scavuzzo mi avrebbe portato a servir messa. Ero svogliato, non mi divertivano più le partite mattutine. Di tanto in tanto calciavo il pallone lontano tra gli aranci , quasi a cercare una pausa , per poter dare il tempo all’insegnante di scorgermi in mezzo a quella mandria scalciante. Mi affascinava  camminare sul sentiero che, attraverso il giardino di aranci ed ulivi, conduceva all’altro istituto. L’odore di zagara si levava, con delicatezza, al sole del mattino e farfalle gialle, mimetizzate nell’acetosella, si alzavano  con un volo improvviso come ad inseguirne il profumo. Le mie risposte, la mia partecipazione al rito erano lente e scandite, quasi a voler dilatare il tempo, per poter respirare più a lungo la presenza di Giulia .

L’odore del caffè e latte anticipava la fine della messa e ci annunciava la colazione. Era imbandita, in una sala attigua alla sacrestia, una tavola , coperta con tovaglie ricamate a mano dalle ragazze,  con frutta fresca, miele, marmellate, gnucattole, passavolanti, frugette, biscotti col lievito di birra. Seduti ci servivano madre Dorotea ed a turno una studentessa. Speravo sempre che fosse Giulia per poterla guardar da vicino e sentire il suo odore.

Don M. aveva mani lunghe e rapaci che frugavano ovunque. Solo però in luoghi bui o appartati. Sembrava in quegli attimi come preso da  compulsione. Quasi tutti, presi alla sprovvista, avevamo, per una volta, sperimentato quelle mani ma, imparato a conoscerlo, stavamo sempre al chiaro. Era comunque ben voluto, perché uomo gentile, buono, pieno di comprensione, insegnante speciale e fantastico organizzatore di tornei di calcio.

Il torneo primaverile sarebbe iniziato subito dopo le vacanze di Pasqua. Eravamo tutti trepidanti ed eccitati  perché quell’anno, alla partita inaugurale, sarebbero state presenti anche le figlie di Maria Ausiliatrice.

Ugo era pieno di iniziative, non si fermava davanti ad alcuna difficoltà. Alla mia perplessità, che quell’anno la nostra squadra non aveva maglie, rispose di non preoccuparmi, sarebbe stato affar suo. Si presentò il giorno prima di Pasqua con una scatola piena di magliette nuove di zecca. Abbiamo poi saputo che le aveva comprate facendo una colletta tra gli amici di suo padre, dicendo che i soldi servivano per le missioni. La mia gioia fu turbata  dal colore di quelle maglie. Sarebbe stata una contraddizione per una squadra chiamata Ambrosiana vestirsi di bianco nero. Come mi sarei poi sentito io in campo con la maglia di una squadra da me odiata?

Aveva accusato quello stato di assenza che lo isolava quando mandava in goal qualcuno o segnava egli stesso. Questa volta non ne era seguita la gioia ma una sensazione di panico e di sconforto. Tutto era diventato buio. Un mancamento iniziato dalle gambe aveva invaso il suo corpo. Era stramazzato al suolo. Così era morto , ucciso da una emorragia. Era vissuto con un aneurisma cerebrale.  Tano aveva un tocco vellutato ed una grande visione di gioco. I suoi lanci planavano come colombi per posarsi improvvisi sui piedi dei compagni, soli davanti al portiere. Repentini i suoi occhi passavano dal pallone al terreno, disegnando nella mente architetture e strategie. Viveva nel campo come in una scacchiera. Aveva iniziato già da piccolo a girare i paesi, invitato a far parte delle squadre locali. Era giunto a giocar nell ‘Arenella, nella città di Palermo. Per noi ragazzi il nome di Tano era mitico come quelli di Valenziano, Cerritto ed Alberti, giganti fantastici, posti al di là del nostro orizzonte. Eppure Tano non era molto più vecchio di noi. Ogni tanto lo accompagnavamo alle partite e guardavamo con senso di superiorità i santagatesi per rifarci del loro chiamarci Zangrei per il nostro incomprensibile dialetto pieno di consonanti.

Da Tano ho copiato il tifo per i rosanero e l’amore per il calcio. Passavo intere mattinate a sbattere, in maniera autistica, il pallone al muro dell’unica casa vicina alla mia. Scacciavo così le mie angosce di bambino, reso insicuro dalle apoplessie di mia madre, e la tristezza di chi non veniva ammesso in parrocchia perché figlio di concubini e perciò scomunicato. Non riuscivo a capire cosa fosse questo marchio pesante che mi avevano assegnato. Cercavo qualche mia colpa, mi scavavo la mente e risentito battevo e ribattevo la palla fino a sfiancarmi. Poi stanco, bruciato dal sole, i capelli arruffati e bagnati mi sedevo sul pallone con la faccia tra le mani. Silvia silenziosa restava a guardarmi . Mi teneva compagnia perché non parlava . Fuggito dai miei fantasmi la guardavo seduta sui sassi .Senza malizia ella stava con le gambe dischiuse ed io mi sentivo catturare da un calore ed un desiderio pudico. Lo stesso desiderio che sentivo quando già giovane e triste,  mi accadeva di smarrirmi  e dovevo fuggire a cercare Nina. Silenziosi stavamo ad annegare la nostra tisi. Le nostre nudità rinfrescavano l’arsura dei nostri corpi ed il caldo delle sere di maggio. L’angoscia ci paralizzava. Incatenati l’un l’altro da un soffrire  senza ragione.

Quando il calcio muoveva non soldi ma  emozioni ed appartenenze, alla passione calcistica si associava quella politica. Erano le squadre espressione di un partito o di una ideologia ed i tornei un continuo scontro politico. Si cercava di rifarsi dalle sconfitte elettorali o di dimostrare in ogni campo la propria forza.

La sartoria di Pippo Lombardo era la nostra sede. Là, alla portella dei Gallo, ci riunivamo a discutere, passando mattinate o interi pomeriggi. Mi sentivo a mio agio in mezzo a quelle stoffe, imbottiture , piccoli frammenti di pezze e fili sparsi sul pavimento. Avevo un ruolo, mi sentivo più concreto dopo la militanza nel movimento e l’esperienza di san  Vittore. Per Pippo e Filippo essere comunisti significava libertà, dignità, lavoro e giustizia. Davanti a loro mi vergognavo delle ore passate in università a disquisire di 3° e 4° internazionale e della fatuità ed irrilevanza del mio essere. Essi parlavano dello spopolamento delle campagne, del declino della pastorizia, un tempo ricchezza di San Fratello, del degrado degli istituti scolastici, della disoccupazione e purtroppo dell’emigrazione. Pippo non ne faceva una questione di bottega perché, nonostante la sua fede, era il sarto dei borghesi. In sartoria non si parlava solo di politica,  avevamo molti altri interessi. Filippo spesso, posata la stoffa, imbracciava la chitarra e si metteva a stornellare, addrizzando le coste a chi gli capitava sottomano . Ne aveva per tutti , specie per le ragazze che non se lo filavano. L’argomento principe però, che faceva il paio con la politica, era il calcio.

Il bar di Cardiddi, di fronte alla sartoria, a ridosso della salita Giannetto, era noto per il gelato al pistacchio e per essere abbonato ad un quotidiano  sportivo. Il signor Cardiddi se lo teneva stretto. Nei pomeriggi primaverili il suo grasso non resisteva al tepore e, seduto fuori da solo, si addormentava lasciando cadere il giornale sul tavolo. Immediatamente Nino, che faceva la posta, usciva dalla sartoria con una bottiglia vuota in mano e, con la scusa di riempirla alla fontana all’angolo del bar, furtivo fregava la gazzetta. Passavamo così qualche ora a leggere e commentare. Da gruppo politico monolitico ci sbriciolavamo in tante piccole entità. Rossoneri, nero azzurri, rossoblù . Unico rosanero, tutto potevo accettare ma non che ci potessero essere juventini di sinistra e tantomeno comunisti.

A volte nei pomeriggi d’estate si decideva di chiudere la sartoria e di andare a Porta Sottana , alla chiesa della Grazia. Ad aspettarci c’erano Bettino Rosselli e don Luigi Conforto, che noi chiamavamo il “cuor di Gesù rosso”. Bettino trafugava gli avana dal tabacchino di suo padre e, nello spiazzo della chiesa, sotto il pino e tra gli alberi da frutta, parlavamo fumando, beandoci della vista del mare della marina e delle isole Eolie. Il più delle volte era padre Conforto a tenere sermone, magnificandoci il valore etico e rivoluzionario del vangelo. Amava san Paolo più di ogni altro evangelista e lo citava. Spesso quando il discorso cadeva sulle donne recitava: “Piuttosto che ardere……..” .Si ricordava poi di aver fatto voto e si interrompeva.

Si discuteva in sartoria se accettare la proposta di far una unica squadra con i democristiani. C’erano resistenze. Pippo era il più persuasivo :” Non era stato don Amerigo a proporlo ? Democristiano sì, ma ad avercene! Nessun problema per il nome  : Libertas. Non richiamava quel nome il libertè, fraternitè, egalitè della rivoluzione francese ? E poi non sarebbe stata una vera vittoria politica battere una squadra di nome: X Mas?”  Si fu tutti convinti.

Al torneo si  scrissero dodici squadre. I liberal-missini oltre alla prima ne presentarono una seconda, forte abbastanza ma piena di provocatori, dal nome: Arditi .  L’intento era chiaro!

Le cose andarono lisce per tutta la fase eliminatoria fino ad arrivare alle semifinali. Un sorteggio preconfezionato mise di fronte la libertas, squadra del “compromesso storico” e gli arditi-avanguardisti. La vigilia dell’incontro passò senza tensione. L’unica nostra preoccupazione era quella di non accettare provocazioni. Non avevamo dato importanza alle minacce che ci venivano recapitate. Il giorno dell’incontro il paese era in fermento, c’erano facce che non si vedevano da mesi. Il pomeriggio fu una processione verso il Monte nuovo dove era il campo sportivo. Cominciavamo adesso a sentirci nervosi. Don Amerigo ci raccomandava di non abboccare e di mantenere la calma  :”Ce li saremmo mangiati come un pasticciotto alla crema”.

Già dai primi minuti di gioco Nino Stirro e Giovanni Natalino avevano puntato Pippo Maniaci, detto fella, alto e lento, ma pronto ad infiammarsi alla minima provocazione. Il loro primo “saluto” fu  uno sputo sul collo ed un calcio sugli stinchi. Subito corremmo a frenare Pippo che stava partendo all’inseguimento per farsi giustizia. Fu un susseguirsi di minacce, spillate nel costato, pestar di piedi e sputi, consentiti da un arbitro quantomeno debole. Concentrati a non farci coinvolgere nella rissa, eravamo incapaci di imbastire una qualsiasi azione di gioco. Così scorrettezza dopo scorrettezza gli arditi arrivarono al goal. Si concretizzava l’intento di un 1° e 2° posto delle squadre della destra. Don Amerigo, pallido in volto, aveva continuato, per tutto il primo tempo, a pigliar appunti sul suo taccuino. Nell’intervallo si sedette in mezzo a noi, aprì il suo notes pieno di schizzi, numeri e frecce e continuò per dieci minuti buoni a spiegare tattiche e posizioni. Ci aveva ordinato di non far respirare, di asfissiare il loro portatore di palla, di non dare punti di riferimento, facendo saltare le loro marcature ad uomo e quindi la possibilità di commettere falli, non visti. Fare movimento, avanzare ed arretrare l’asse, tutti in blocco, raggruppando la squadra in 30-40 metri. Fare pendolo ora a destra ora a sinistra. Giacomo sarebbe stato il nostro pivot in difesa, mentre Pippo Mangano, riverino, sarebbe stato libero di piazzare  i suoi lanci ora da una parte ora dall’altra per i terzini che si sarebbero sganciati.  Subito dall’inizio della ripresa la tattica funzionò a perfezione. Vedevamo gli arditi sbandati alla ricerca di un avversario e del pallone. Al 10′ Pippo, ricevuta la palla, a mezz’altezza, sulla sinistra, stoppa a terra, fa una piroetta su se stesso, da una occhiata al nostro settore destro indica con la mano e grida :”vai Ciro!”. Con uno scatto improvviso, provenendo dalle retrovie,  accentrandomi di una diecina di metri, mi  trovai in area. Solo davanti al portiere con la palla tra i piedi. Un improvviso calore invase il mio corpo, il sudore mi entrava negli occhi, le gambe perdevano forza, il tempo si era fermato, i comandi lenti a partire. Sembravo ipnotizzato. Con uno sforzo doloroso sollevai lo sguardo tanto da poter vedere il portiere immobile, attonito e sorpreso. Ora tutto diventava più facile, la gamba era libera e leggera ed il piede dava un tocco morbido di piatto al pallone, che sentivo rotolare lento ed inarrestabile  all’angolo. La rete aveva accolto e coperto, quasi a proteggerla, la palla. Alzati i pugni al cielo, un grido epilettico di disperazione uscì dalla mia bocca . L’animo mio per un attimo fu chiaro. Dagli spalti partirono insulti e qualche bottiglietta. In più d’uno gridava: “spaccagli le gambe a questo comunista!” Erano ahimè queste le persone per le quali io avevo lottato. Offeso e confuso mi tornarono in mente le sbarre di via Filangeri, lo sciopero della fame, i volantinaggi . Con rabbia mi avvicinai a Pippo Lombardo, che stava ai bordi del campo, e gli gridai: “ecco i tuoi pastori, i tuoi mezzadri, i tuoi muratori in nero!” Tornai a giocare con più foga. La partita non aveva ormai più storia, erano alla nostra mercè. Un bombardamento continuo. Fino a quando un cross di Farineddu da sinistra trovò Saro pronto in area .Lo vedemmo librarsi in aria, sembrava lì sospeso ad aspettare la palla, che schiacciò con prepotenza in rete.  2 a 1. In un frastuono di insulti ed offese giunse il fischio di chiusura. Mi ricordo soltanto un mio gridare isterico buffoni! buffoni! verso una parte degli spalti ed un’orda di persone inferocite a stento frenate dai carabinieri.

La finale non fu mai disputata per motivi di ordine pubblico !

Ciro Gallo