Prof. C.

La prima sigaretta, rollata con abilità da fumatore inveterato, l’aveva ottenuta con una cartina ricavata da un foglio di carta da lettera di quelle fini e con trinciato forte, trafugato dal pacchetto che suo padre teneva nella giacca da lavoro, appesa nel piccolo maglificio. Alla prima boccata sentì l’arso del fumo che gli lacerava i bronchi. Resistette, non tossì, mostrando la sufficienza che aveva imparato a vestire in  periferia, nei campi da pallone perché tirava forte di destro e batteva tutti in velocità. Quel fumo nei polmoni gli venne vieppiù familiare. Fumando pensava a quei giorni di fine estate in cui si divertiva a dar fuoco alla paglia rimasta nei campi dopo la mietitura.

La sua tosse la sfogava ora all’età di ventisette anni. La luce fioca della stazione di Turbigo pioveva fragorosa, nell’oscurità di quella mattina d’inverno, su un pastrano nuovo di cammello. Le mani, liberatesi con difficoltà dai guanti, frugarono nervosamente nelle tasche. Si sentì nel silenzio lo sfregare del fiammifero. Si accese la sigaretta e tirò una boccata profonda di gusto, soddisfatto. Finalmente non era più Peppino ma il dottor C. . Ora fumava giubek col filtro.

Marisa l’aveva conosciuta così per caso sul treno che da Turbigo lo portava ogni mattina all’Istituto. Era salita alla stazione di Busto e si era seduta davanti a lui. Assorto nei suoi pensieri fuggiva dal finestrino e si perdeva attraverso i campi indietro negli anni quando, giovane italiano del littorio, era stato ricevuto a villa Torlonia e aveva udito a non più di un metro di distanza quelle parole che “ti facevano accapponare la pelle”. Lei era là, i suoi fianchi abbondanti e suadenti erano stretti in una gonna nera che lasciava libere due gambe snelle senza calze. I piedi con le unghie laccate erano ornati da sandaletti. La camicetta bianca a mezze maniche, appena sbottonata sul petto, mostrava una pelle dorata dal primo sole estivo. Si erano accorti intensamente ed avevano abbassato entrambi all’unisono lo sguardo. Un sorriso ingenuo e provocante era comparso sulla bocca di Marisa mostrando la freschezza dei suoi vent’anni. Il libro era aperto sulle ginocchia accavallate di lui che, nonostante si sforzasse di tradire attenzione su quelle fotografie radiografiche del torace, non riusciva più a concentrarsi. Quelle immagini erano diventate un involontario test di rorschach. Le immagini degli ili polmonari diventavano i seni di Marisa, i profili cardiaci i suoi fianchi. Ora la guardava fissamente. Aveva improvvisamente perso ogni ritegno e, abbandonandosi con candore a fantasticherie adolescenziali, aveva cominciato a spogliarla. Il calore del sole e della sessualità invadeva riscaldandolo il suo corpo. Il sudore imperlava un petto villoso intridendo la maglietta a righe gialle e blu.

Distesi sull’erba dopo l’amore ,ella guardava felice il suo Giusy fresco ed atletico. Egli fumava ed il fumo si portava via i suoi pensieri. Dai suoi occhi e dalle sue mani, che accarezzavano i fianchi morbidi e caldi di lei, traspariva la riconoscenza per questa donna che non lo aveva costretto ad inventar accerchiamenti per un bacio. Pensava con angoscia a tutte le volte che aveva proposto alle ragazze di fare un giro in vespa, fidando sul fatto che inevitabilmente gli avrebbero chiesto di guidare. Così inevitabilmente lui, con la scusa di aiutarle a reggere il manubrio, si sarebbe strusciato contro la loro schiena palpandole. Marisa lo aveva invece amato così com’era, non chiedendo niente. L’avevano subito colpito la tristezza e la solitudine di quel giovane.

All’Istituto era giunto accompagnato dal prof. On.XXXX , deputato eletto nelle fila del partito dell’uomo qualunque. Il direttore l’aveva accolto con una glaciale gentilezza, come si addice a uomini di ceto sociale superiore. Peppino aveva iniziato a lavorare con sobrietà ed impegno già dai primi giorni. Si cominciava a dire un gran bene di lui, della sua intelligenza, del suo prestarsi anche ai lavori professionalmente più umili. Gli si rimproverava comunque una certa mancanza di finezza. Ma questo era inevitabile in un ambiente che raccoglieva rampolli di buona famiglia, anche se intellettivamente mediocri, con tradizioni aristocratiche. I suoi antenati invece avevano conosciuto il calore del sole di agosto sulla nuca e l’odore acre dello zolfo.

Con gli anni, passo dopo passo, con umiliazioni e rinunce, anche perché nessuno lo riteneva un vero concorrente, era riuscito a ricoprire uno di quei posti intermedi, di un certo prestigio, ma destinati a non aver mai eccessiva importanza. Intanto l’onorevole era morto. L’Italia che “contava”,  con l’ascesa della stella americana di De Gasperi , per non perdere il potere, era corsa a mimetizzarsi nelle fila del vecchio partito popolare, ora democrazia cristiana. Peppino nella sua ingenuità, da uomo non abituato al potere, non riusciva a capire questo volta gabbana. Lo avrebbe capito sulla sua pelle. Piccoli avventori, mediocri bacia pile, con pratiche erotiche da sacrestia , lo avrebbero scavalcato nella carriera . Era nato l’impero clientelare democratico cristiano. Qualcuno che ancora gli voleva bene gli aveva paternamente consigliato di mettersi sotto la protezione dello scudo crociato e di presentarsi candidato alle elezioni comunali di Turbigo . Ma la figura del duce che giocava a tennis, che andava a cavallo, che tirava di scherma, ed il sogno piccolo borghese dell’Italia social-fascista  lo avevano spinto a rifiutare. Era rimasta in lui quella coerenza che ancora agli inizi degli anni sessanta lo spingeva a votare per il partito della fiamma tricolore.

Peppino cominciava a comprendere che il suo non progredire nella carriera, il non diventare a tutti gli effetti universitario, ed il suo trasferimento alla radioterapia avevano delle motivazioni sociali ed economiche. Ormai aveva intuito di aver la strada sbarrata e cominciava a recalcitrare. Tuttavia, come succede a chi crede di vivere in un ambiente non suo, l’affermazione del suo nuovo direttore, che predisposti a certe carriere si nasce, lo capacitava.

Insieme ai primi capelli bianchi ed ad una precoce calvizie, che gli rendeva la fronte più ampia, era giunto il titolo di professore. Ricche non più in fiore e giovani popolane erano pronte ad offrirgli le une le ricchezze le altre un corpo giovane e caldo. Vigili urbani , diventati benevoli, lo lasciavano sfrecciare con la sua giulietta T rossa per le vie di Turbigo. Dentro di sé comunque sentiva la mancanza di qualcosa, di essere stato defraudato. Credeva che tutto ciò dipendesse dal fatto di essere ancora a quarant’anni scapolo. Così in un accesso di solitudine si sposò. I primi periodi furono di dolce tranquillità. Sembrava che  tutto  finalmente cominciasse ad andare per il meglio. Divenne primario in un famoso ospedale. Cominciarono i primi viaggi. Ma l’inizio difficile  del suo primariato, gli inevitabili raffronti con i colleghi , tutti più ricchi di lui, lo amareggiavano. Capiva ora quanto fosse stato sfruttato e quanto poco fosse stato gratificato il suo impegno. Nacque in lui, ma solo a livello intellettivo, una certa solidarietà con altri sfruttati. Solidarietà che lo spinse nell’urna elettorale a puntare decisamente il lapis copiativo sulla falce e martello. Ma la sua mano, memore dell’’antibolscevismo” , restò come paralizzata, riuscendo a scarabocchiare una croce sul riquadro delle preferenze. Fu quella la prima delle sue numerose schede bianche o nulle.

Il suo studio ha delle poltrone di finta pelle ed un tavolo di noce, i suoi occhi sono vitrei ed assenti, egli parla, e di tanto in tanto, insegue ad alta voce i propri pensieri, cercando di sfuggire così al demone della delusione.

Ora gli si rimprovera di non essere diventato ricco.

Ma la notte ritornando  ad essere  Peppino sogna ancora di Marisa e di volare.

Milano fine autunno 81-inizi inverno 82

Ciro Gallo