Don Calorio si era avvicinato con la sua figura lunga e seghigna da eterno vecchio con gli occhi spiritati. Fatta la genuflessione, era salito all’altare e gli aveva sussurrato all’orecchio che le api erano sciamate. Il padre non si scompose e continuò a celebrare. La messa però finí prima del solito. Senza alcuna spiegazione la predica domenicale era saltata.
La casa dell’arciprete era una palazzina indipendente di due piani con un grande terrazzo contornato da una balaustra di marmo sorretta da colonnine di cemento. Là egli teneva le api. Più volte l’anno, durante la primavera, esse abbandonavano le arnie, per andarsi ad ammatassare sugli alberi del giardino antistante il vicino municipio. Cosí fu quel giorno, una domenica di aprile, un mattino di un clima delicato, con un sole splendente tiepido, in un cielo azzurro sbiadito. Le api erano aggruppate a gomitolo pendente sulla palma più piccola in mezzo al prato, appena sopra la fontanella. Gli alberi fioriti coloravano di rosa il loro profumo che si spandeva nell’aria.
Ottenuto il nostro bollino di presenza alla funzione, che ci dava il diritto a partecipare al torneo, eravamo lí con le nostre borse, pronti per andare all’istituto del Sacro Cuore per giocar la partita. La nostra attenzione era divisa a metà. Con un occhio guardavamo don Antonino che, col suo cappello a falde larghe, da cui scendeva una retina fino al collo, e i guanti, riportava con maestria le api dentro una scatola di legno, con l’altro spiavamo la strada, per scorgere qualche macchina che ci potesse dare un passaggio fino a S. Agata.
Quel giorno sembrava che tutti dormissero, che i pochi automobilisti, che di solito transitavano sulla nazionale, avessero deciso di disertare il paese. Il tempo stringeva, era passata quasi un’ora ed eravamo ancora tutti là. Cominciava ad assalirci il timore di non arrivare in tempo all’oratorio e di perdere la partita a tavolino. Proposi, con un piglio che non ammetteva dissensi, di andare a piedi. Tre chilometri e mezzo per noi sarebbero stati una inezia. “Nessuna stanchezza, avevo io il rimedio”. Inventai. “Avevo le “ pasticche” che mio padre dava ai suoi giocatori nelle partite difficili”. Corsi a casa, rovistai nell’armadietto dei farmaci e trovai. Un tubetto cilindrico di color verde, più corto e più stretto di quello del formitrol. D’entro c’erano delle pastiglie dolci, rotonde, di uno sfumato sapor di menta, che mio padre usava per lenire la sua tosse da fumatore. Ne distribuii una ciascuno , quasi obbligandoli a masticarle. Anch’io per convincerli dell’efficacia ne ingoiai una. Partimmo, fu quasi un baleno, in meno di mezz’ora arrivammo pimpanti al campo. Giocammo. Vincemmo. Ora eravamo seduti, di ritorno, lungo il rettilineo, sotto il carrubbo, al ponte dell’acqua fresca. Freschi anche noi, appena bagnati di sudore i capelli. Vivaci, ancora in forze. Aldo piú di tutti. Cominciavo ad autoconvincermi che quelle “pillole” avessero qualcosa di miracoloso e che non fosse stata solo una mia invenzione.
Era successo ad Aldo a 50 anni ciò che succede a tanti altri. D’improvviso e per qualche mese. Non riusciva a spiegarsi cosa e come fosse accaduto nel pieno della sua maturità. Si alzava al mattino del tutto diverso da prima. Seduto, con i piedi fuori dal letto si guardava smarrito, e là stava flaccido , triste retratto, grinzo, non una minima reazione.
Cominciò a preoccuparsi, nessuna rassicurazione lo calmava. L’atteggiamento benevolo e comprensivo della moglie lo irritava. Si sentiva sminuito agli occhi di lei. Si tormentava. Niente lo aiutava, nessuna razionalizzazione, nessuna spiegazione gli sembrava valida. Scopriva ora che aveva misurato la sua virilità col turgore, e che la sua sessualità si estrinsecava solo nell’atto di potenza. Cominciò a recriminare, ad aver nostalgia e rivivere i “bei ricordi” e a valutarli con una certa megalomania: “quante performaces, quante “soddisfazioni” aveva dato”. Si rammaricava delle occasioni a cui aveva volontariamente rinunciato. Non scherzava più sulla sua “fedeltá compulsiva”. Ma ciò che lo rattristava e disturbava di più era la costrizione ad essa. “Che valore aveva ora? Quando hai tutte le possibilità integre, allora é vera fedeltà, non quando sei mancante, obbligato da altro ad essere fedele”.
Provò tanti rimedi, all’inizio personali. Ognuno ha delle pratiche, dei rituali che sempre funzionano quando tutto però va bene. Poi ne mise in atto altri. Quelli che gli uomini si raccontano tra di loro, dandogli un valore magnificente e mai provato.
Tutto fu inutile. Cominciò a leggere ad informarsi, cercò su riviste specializzate, valutò diversi medici e ne scelse uno. Gli era sembrato il più idoneo:”ginecologo/andrologo”. Telefonò, prese appuntamento. Alle 6 di sera si presentò, suonò il campanello. La porta si aprí su una anticamera disadorna. Nessuno a riceverlo, nessuno in attesa, nè uomini nè donne. Si sedette. Aspettò. Ora la porta dello studio si dischiuse, si fece avanti un uomo sui 70 anni, tarchiato, panciuto, in camice bianco, una testa liscia senza un capello. Affabile lo introdusse, lo fece accomodare e si fece cadere di botto sulla poltrona dall’altro lato della scrivania.
Imbarazzato Aldo stentava a parlare, la voce troppo bassa per essere udita.. Non é facile esprimersi in queste situazioni e con quel fardello corporeo e mentale. L’uomo lo scrutava, se lo studiava, stava zitto, aspettava da rapace la prima mossa. Alla fine fu chiaro il dilemma. Aldo si era tolto il peso dal petto. Gli occhi del medico improvvisamente brillarono, entrambe le mani si chiusero come nell’atto di spremere, con inaspettata gioia. Poi il dottor/professore con aria paterna cominciò a dire che non era nulla, che gli avrebbe risolto il problema, che gli avrebbe approntato una terapia che avrebbe avuto effetti straordinari. Citò ripetutamente studi americani, elencò i suoi titoli , le sue esperienze, omettendo la condanna per omissioni di atti di ufficio nell’uso della professione. Visitò, palpò, esplorò, provocò dolore, fece un viso sorpreso e soddisfatto, come di chi avesse trovato la causa. Sorrise bonario. Prescrisse fogli interi di esami. Impressionò. Redasse la terapia e la porse. Fu questa la prima di numerose visite, tutte a pagamento e a prezzo pieno. Suggerí infatti di tornare dopo una settimana per completare lo studio con una ecografia, prima di iniziare la cura.
Aldo cominciò ad assumere i farmaci, tante pastiglie al giorno, di ogni genere e specie.Rispettò scrupolosamente gli orari. Niente successe dopo la prima scatola. “ Ancora é troppo presto, vedremo dopo la seconda” pensò.
Passò cosí quasi tutto il tempo previsto per il completamento della cura. Niente accadde. Andava a letto speranzoso ma si svegliava al mattino sempre più deluso. Nessun segno di vita.
Avvilito buttò via le ultime compresse rimaste. Aprí il computer, si attaccò a internet, comprò e pagò con la sua carta di credito. Aspettò. Finalmente arrivò il postino col pacchetto.
Quel venerdí decise di andare a trovare , di “incontrarsi” con la moglie e di fermarsi per il week end a Palermo, dove ella insegnava. Mise in tasca il pacchetto, prese il treno. Avrebbe assunto il contenuto 20 minuti prima, quando giunto a Bagheria, per essere pronto già all’arrivo a casa.
All’altezza di S. Flavia si palpò una tasca della giacca, poi l’altra. Un tuffo al cuore. Non trovò la scatola. Frugò anche nel taschino interno. Si toccò freneticamente la tasca sinistra dei calzoni, quindi la destra. Finalmente la trovò. Strinse forte tra le dita, come a non farlo ascappare, il blister delle pilloline blu, si rasserenò, si rilassò e con sorpresa sentí , improvviso, un piacevole, inaspettato , a lungo sperato, turgore duro sotto i calzoni in mezzo alle gambe.
Milano 22 marzo 2016
Ciro Gallo