E iea mut!

Quella che scrivo é una storia amena, dice dell’importanza ed utilità dell’acqua corrente e della fogna. Non nel suo aspetto igienico-sanitario, ma nel senso del liberarsi e del guadagnare tempo con un semplice flushing.

Allora, nelle prime decadi del secolo scorso, nei paesi di campagna, ed é del mio paese che parlo, né l’una, né l’altra  esistevano.  Ancora negli anni cinquanta il cesso era ubicato nella stalla, a cui si accedeva dal catoio, attraverso una porticina stretta, in un angolino, sotto una finestrella a grate di ferro senza vetri che faceva passare l’aria. Una specie di nicchia-cappellina, come quelle che si trovavano  con le icone di santi lungo le strade. I tuoi odori si mescolavano con quelli della paglia e della mula o dell’asino, che ruminavano legati alla mangiatoia. La loro grassura non faceva differenza di specie.

Oggi una casa non é una casa  se non ha almeno due bagni, anche se ci vivono solo una o due persone. I sanitari sono splendenti, di varie forme  e puoi liberarti dei “bisogni” a tutte le ore del giorno. Prima no. C’era , in un angolo ben nascosto della casa, dietro una tendina e coperto da un panno, il “signore”, il cantaro. Un cilindro cavo, con un orlo rotondo, una specie di falda larga di cappellaccio da sole, su cui appoggiavi scomodamente le terga. Lo usavi quando non ne potevi più o per le urgenze.

Era in paese una piccola collina chiamata la “schina chinina”, perché ce ne era  al monte una più grande. Una specie di schiena  curva, che , fuori e discosta dalle case, attraversava almeno tre quartieri. Là, di sera,  nello scuro, non c’era ancora la luce elettrica, la gente, che aveva trattenuto per tutto il il giorno, si recava. Una processione di persone guardinghe e silenziose. Le donne, a loro era sempre toccata questa incombenza, nascoste dallo scialle, con sotto una falda di esso, retto con  cura ed attenzione, andavano a vuotare il “barone”. A due , a tre, vicine di casa. Altri da soli o in coppia per le incombenze corporali.

Quella sera a Cola e Sulia era scappata contemporaneamente  la necessità  di liberarsi dei propri bisogni. Il buio si pestava. Nè lustro di luna, né una stella in cielo.  Stretti , quasi invisibili , i due coniugi, appena sposini, si recarono  alla schina.  Giunti sul posto prestabilito, ognuno aveva un suo angolo preferito, si erano accoccolati l’una discosta dall’altro. Il silenzio si tagliava. Si sentiva  soltanto un impercettibile ansimare, lo sforzo della  pressione ed i naturali rumori posteriori, intermezzati con quello dell’urina, attutito dall’impatto col terreno polveroso che faceva le bolle. Infine un sospiro di sollievo. Al buio Sulia, ormai libera dalla tensione, spinge il gomito a toccare l’ombra  accoccolata vicino e chiede:” a tu Cala, fnst, fnst?” ( ehi Cola, hai finito, hai finito?), credendo di parlare al marito. In quella oscurità, senza vedere ed essere visto, nello spazio lasciato tra marito e moglie, era venuto a liberarsi un uomo.

Tante erano le storie di gelosia e coltelli che giravano al mio paese, qualcuna vera, molte altre gonfiate dalle dicerie popolari. Il sesso con la sua temeraria irrazionalità mai si era curato di questi timori. Di nascosto succedeva ciò che apertamente uomini e donne fanno oggi. C’era  allora però una maggiore credulità e quindi una certa paura.

Nessuna risposta .  Sulia insisteva a chiedere colpendo con più accanimento col gomito   :”fnst , fnst?” Impaurito , in apprensione, quasi come un ladro, senza fare rumore, senza aver finito il suo fare, con una mano a reggere i calzoni e soprattutto senza farsene accorgere l’uomo si allontanò.

Così lo raccontava agli amici, ed ad uno che gli chiedeva : “e tu ch fist?” ( e tu cosa hai fatto?) quando quella ti parlava? Iea? Iea mut !” ( io? io muto!). E gli veniva in mente quel personaggio sempliciotto del paese che, andato di notte a fare i bisogni, durante la guerra, si era trovato nel pieno di un bombardamento.  Atterrito si era rivolto al cielo e come preghiera aveva esclamato: ” Se minni scansu  di chisti botti nun ci nesciu chiù a cacari di notti!”

A mia madre, la cui cultura e’ tanta parte delle mie  ispirazioni

Ciro Gallo