L’acqua e la regina.

Allora l’acqua c’era , l’avevano messa, ma le donne, per abitudine o forse per scarsità, mettevano le bagnarole sotto le cannalate tutte le volte che pioveva.

Ci inzuppava i capelli la pioggia. Le gambe lavate, i piedi nelle pozzanghere guardavamo incuranti l’acqua scorrere e cadere dalle grondaie dentro quei recipienti. Il rumore metallico si frammezzava agli schizzi che la furia alzava e faceva fuoriuscire e spingere a terra a fondersi con quell’altra libera che cadeva dal cielo. Ruscelli si formavano nella schina chinina e precipitosi correvano verso la strada di sotto. Si disperdevano allargandosi nella scalinata che dava in via Gioberti, per riformarsi a valle fino alla casa dei Giannetto e disperdersi poi negli orti.

Cancellava tutte le volte i quadrati disegnati sulle basole a metà della scala. Là giocavamo a tomblii . Non ci dispiaceva, facilmente avremmo rifatto i disegni con i numeri. Sarebbe ripreso presto il rimbombo dei boccini e l’eco delle pareti. Durava poco la pioggia nei mesi estivi.

Non so a cosa servisse quell’acqua piovana , ma le donne, con le loro gonne lunghe , lo scialle in testa, cercavano di non disperderne nemmeno una goccia. Si accoccolavano, prendevano per le maniglie il recipiente, lo tiravano su quanto potevano e curve, con le ginocchia piegate, avendo cura che lo scialle non scivolasse dalla testa, lo portavano in casa. Stavano ritte , con la testa appoggiata alle grate della porta dei catoi ad aspettar che spiovesse. Pronte a ritirare bacilli, bagnarole, lemmi , piccole giare. Ancora mi chiedo a cosa servisse quell’acqua .

Me le ricordo comunque le file all’unica fontanella del quartiere. Ognuno con la propria quartara ad aspettar il turno. Di varie dimensioni, a dipende dalla forza e dalle necessità. Mi colpivano quelle a cui mancavano un manico o quelle col muso smozzicato. Mi sembravano ferite, mutilate. Ore passavano le donne alla fontana. Dopo l’andare in chiesa, questo era un momento di socializzazione e di libertà, non solo per le ragazze a servizio.

Al tempo poi, chi non aveva il frigorifero, o forse allora da noi non esisteva, andava al ruggio, all’angolo in alto, sulla via Vittorio Emanuele, a riempir le bottiglie di acqua fresca della favara. Le sere d’estate, all’imbrunire una processione di donne e bambini si recava alla fontana.

Avevamo noi due bottiglie bianche, una raffigurante il re e l’altra la regina, o così le avevamo battezzate. La regina era bozzuta sul davanti, la forma di piccole tette.

Non so perché quella sera io abbia deciso di andare a riempir la regina, non ce ne era la necessità,  il re era stato riempito poco prima. Scalzo, mi capitava di togliermi le scarpe scaraventarle in casa attraverso l’uscio aperto e fuggir a piedi nudi. Così feci anche quella volta. Corsi con la bottiglia in mano, attraversai lo stradone, salii lungo i padiglioni, una piccola kasba, e giunsi col fiatone all’angolo di Parrocchiale. Feci in modo di riempir la bottiglia prima degli altri.

La regina aveva il collo stretto, più piccolo del getto del rubinetto. Parte dell’acqua entrava dentro ma tanta colava lungo i suoi fianchi e le sue forme, bagnandomi le mani e spandendosi a terra. Alla fine fu piena ma completamente bagnata. Tutto quel guazzabuglio aveva irrorato il marciapiede ed un rivolo scendeva lungo i lastroni di pietra. Fresca era la sensazione sotto i piedi ma scivoloso il selciato. Perdetti l’equilibrio, barcollai,mi aggiustai, allargai le braccia ed aprii le mani. Restai dritto ma mi scivolò la bottiglia.

E’ fu così che si ruppe la regina.

 

Milano 31 maggio 2015

A Franco Trani e Turi bugghiuni che fan parte di queste storie.

Ciro Gallo