Etaoghene Ariere.

Voracemente tutto mastica e digerisce facendo un assordante rumore. Poi nulla più, il silenzio. Fino ad un nuovo episodio, gridato, reso eclatante, confondente, Questa e’ la nostra stampa : una specie di casserolato. Scarsa sensibilita’, poca partecipazione, poche domande sulle conseguenze per  e sui sentimenti della gente coinvolta.

Chi di quelli che : “sbatti il mostro-evento in prima pagina” ha oggi un angoscioso moto dell’anima al pensiero di quelle vittime che, svegliatesi un mattino, in un giro della loro vita normale, hanno trovato la morte? Senza una ragione, come per una calamita’ naturale, inaspettata ed imprevista. Chi vive l’assenza fisica ed affettiva dei parenti e degli intimi? Chi si interroga anche sulle condizioni mentali  di quello che , con un certo razzismo, veniva chiamato il “picconatore ganese”?  Scomparso adesso, come oscurato e negato in precedenza. Concreto solo come assassino. E prima? Nessuno aveva capito? Nessuno di quelli che con lui erano venuti a contatto aveva intuito lo stato della sua psiche malata? Nessuno aveva potuto curarsi della malattia interiore che, endemica, colpisce, nella solitudine e mancanza di speranza, gli immigrati, che lasciano la loro terra, la loro famiglia, portandosi appresso solo i loro  “spiriti” e le loro “voci” incontrollabili? Solo attenti a denunciarli come untori di malattie che non hanno, o che,  viste le possibilita’ di spostamento, noi ricchi occidentali possiamo contrarre  ed anche diffondere!

La mia angoscia dolorosa e’ per chi ha perso la vita ma anche per chi, pur vivo, perde l’esistenza perche’ gli e’ negata, come ai tanti

ETAOGHENE ARIERE.

La voce era quasi in falsetto, non perché avesse qualcosa alle corde vocali, ma per timidezza e rispetto per l’altro. Il colore della sua pelle era nero. Più scuri i suoi occhi, soffusi da una patina gialla di tristezza. Lamentava qualcosa, ma soffriva di altro.

I figli lo avevano visto andar via, come tutti i giorni . La Nigeria è un paese infelice pensava. Condivide con molte nazioni l’infelicità .La povertà ne è un effetto e la causa. La religione l’accentua, avendo perso la sua funzione di conforto.

Come un sogno era passato. L’arido della sabbia sputato dalla bocca. L’umido ed il vento del mare nelle ossa. La paura. Tutte le paure. Quella presente, quella di ciò e di chi aveva lasciato e quella davanti che aveva un aspetto ululante senza fine. Come una mano sulla fronte la speranza. Il cuore gli sobbalzava. Si aggrappava a questa extrasistole.

Etaoghene Ariere è un nome scritto in una carta di riconoscimento di un rifugiato. La sua identità diluita nello sfondo bianco di un cartoncino. Il suo viso è anonimo. Solo un piccolo riquadro fotografico concretizza il suo essere. Solo quello egli è. Identificabile. Non corpo , non segno, non persona. Una carta. Un apparente bugiardo lasciapassare. Per altri neanche quello . Negati,non esistenti.

My name is Etaoghene Ariere, I am nigerian, a  refugee.

Per due anni era vissuto in un centro di accoglienza religioso, di questo non poteva lamentarsi. Erano rispettosi , comprensivi. Ma la sordità !

Please I need a job.

Soggetto della nostra compassione , non soggetto di diritti. Metafisico , non concreto necessitante.

Era arrivato all’Opera dopo un viaggio in treno da Novara. A quell’ora del mezzogiorno i treni sono quasi sempre vuoti, lasciando spazio all’odore del legno. Aveva aspettato il suo turno. Etaoghene faceva fatica a farsi capire. Nessun tentativo, quando l’altro non parla la tua lingua e non si sforza di comprenderti, nessun gesto riesce a creare comunicazione. Questo è un destino comune a tutti gli immigrati. Continuano a parlare tra loro, se sono fortunati, o a rimuginare i pensieri della solitudine nel più totale isolamento. Improvviso fu il senso di sollievo quando gli chiesi : “How are you? Where you come from? “. Aveva trovato un mezzo, un appiglio, un linguaggio terzo. Non per esporre i suoi problemi di salute ma per uscire dalla negazione. Esistente solo come corpo che manifesta un dolore. Usciva dal disagio.

Etaoghene aveva qualcosa di diverso da quello per cui era venuto. Forzando leggermente la prassi, col senso di solidarietà che ancora ci permette la professione medica, l’abbiamo trattato nel nostro ospedale . Trattato , non curato. Difficile è prendersi cura, curare il dolore morale, la povertà, il desiderio di lenire la mancanza, l’assenza, la rappresentazione di un mondo sperato.

Rauca e leggera è la sua voce, scandite le sue parole. Dignitosi , persi i suoi occhi. Sconfitta la speranza. Seduto mangia un pasto, imbandito in un lettino da visita. E’ servito quel cibo, che sarebbe stato buttato, a compensare il poco dei giorni prima. Qualche panino dopo aver dormito all’addiaccio in giardino per settimane.

No job sir… I have to go back. Back to Nigeria…. I need to go to the embassy

But you are a  refugee, a christian. You are going to get in trouble. Why don’t you wait ? Try again, look again for a job.

Sir… two years. It’s a long time… hard time. Please help. I have no money. I can’t go to Rome.

Ho mangiato il mio pane seduto accanto. Ho condiviso con Ariere il mio caffé.

In un treno che partiva per Roma, con solo uno zaino ed un giubbotto per coprirsi dal freddo è iniziato il ritorno in Nigeria. Respinto, non espulso. Nessuna legge restrittiva è più forte dell’individualismo, della superficialità di chi ha la fortuna di una nascita calda.

Etaoghene Ariere è un ricordo.

Ciro Gallo